Recensione di: Essere qualcun altro : Ebrei postmoderni e postcoloniali / Shaul Bassi. - 1^ Edizione. - Venezia : Cafoscarina, 2011.
Il libro di Shaul Bassi potrebbe intitolarsi “Postcolonial Studies for Talmidey Chacham”, ovvero per gli ebrei “alunni di un dotto” che vogliono uno sguardo innovativo sulla loro civiltà, dato appunto dagli studi postcoloniali.
Il presupposto di questi ultimi è che coloro che vivono in condizione di oppressione (per esempio, ad opera di una potenza coloniale) devono scindere il proprio sé, in una parte che viene giudicata ed una che giudica e reprime per prevenire pericolosi scontri con l’oppressore.
Purtroppo, la necessità spesso diviene virtù: il giudice interno invidia ciò che ritiene “vincente” dell’oppressore, cerca di appropriarsene e con esso educare l’imputato interno.
Nasce così la caratteristica più evidente del soggetto postcoloniale: la “mimicry”; si potrebbe tradurre la parola con “imitazione servile”, che in diritto industriale designa un prodotto che vuol confondersi con un “originale”, ma si rivela irrimediabilmente diverso, diventandone spesso la parodia.
E quando al postcolonialismo si aggiunge il postmodernismo, che sostituisce ad un’identità unitaria un’intreccio di filoni culturali, si ha l’apogeo dell’ibridazione culturale, in cui proprio nell’intreccio delle imitazioni si palesano inaspettate originalità e strabilianti rapporti tra diverse civiltà.
E può capitare perfino, come diceva l’ebreo tunisino Albert Memmi, citato in questo libro di Shaul Bassi, che “in paesi coloniali come la Tunisia: ‘La popolazione ebraica si identificava tanto con i colonizzatori quanto con i colonizzati’” – moltiplicando quindi le possibili imitazioni ed i loro intrecci.
Il variegato mondo ebraico è uno dei soggetti migliori per gli studi postcoloniali, e Shaul Bassi, Professore di Letteratura inglese e postcoloniale all’Università di Venezia, nonché cofondatore del Centro Veneziano di Studi Ebraici Internazionali, si inserisce nella corrente dei New Jewish Cultural Studies di origine americana, che applicano le metodiche postcoloniali allo studio dell’ebraismo, e propongono l’ebraismo come pietra di paragone degli studi postcoloniali.
Il libro è una raccolta di saggi il cui scopo non è soltanto teoretico, ovvero di fornire al lettore validi strumenti di conoscenza, ma anche pratico, in quanto l’autore ritiene che la rivitalizzazione dell’ebraismo italiano passi proprio per l’adozione delle metodiche postcoloniali – ovvero vedere nell’ibridazione un’opportunità e non semplicemente un altro nome dell’assimilazione, riconoscere nel pluralismo non una minaccia alla coesione interna ma la capacità di rendere la vita ebraica più seducente e soddisfacente per più persone, e capire che misoginia ed omofobia non sono dettati della Rivelazione, ma conseguenze di contingenze storiche postcoloniali (in parole più semplici: come stanno dimostrando gli italiani postberlusconiani, più si è subalterni, più si è anche misogini ed omofobi).
Entrando nel dettaglio dei singoli saggi, il più significativo dal punto di vista pratico sembra “‘La lège de Mosé’: ebrei italiani tra riforme e resistenze”. L’analisi di Bassi è impietosa, ma non molto originale, anche perché i mali che denuncia sono antichi ed evidenti: le comunità ebraiche italiane sono divise tra una maggioranza di ebrei poco o punto osservanti, ed una minoranza di ebrei osservanti ed impegnati ai quali viene delegata l’organizzazione e la rappresentazione comunitaria.
Sebbene la maggioranza non si comporti da ortodossa, gli ebrei che la compongono perlopiù spaventati dalla prospettiva di aderire a comunità ebraiche non-ortodosse, cosa che pure li libererebbe dalla contraddizione tra quello che si professa e quello che si fa; questo atteggiamento viene paragonato da Shaul Bassi alla ben nota discrepanza tra il numero dei battezzati cattolici ed il numero dei praticanti cattolici – io, che sono bibliotecario all’Arcigay di Verona, faccio un ulteriore paragone con la “tolleranza repressiva” di cui parla Giovanni Dall’Orto.
I rapporti omosessuali in privato tra adulti consenzienti sono stati depenalizzati in tutta Italia nel 1889, con il Codice Zanardelli – ma l’aspetto negativo di questa depenalizzazione, mantenuta dal regime fascista, da quello clericale, e da quello postberlusconiano [come in “postcoloniale” la parola “post” qui va intesa: “dopo l’inizio del periodo di oppressione …”] è stato il divieto implicito di rivendicare l’omosessualità come identità e di costituirsi in “minoranza sessuale”, con tutti i diritti che spettano alle minoranze, compresa la protezione speciale contro chi, per colpire una minoranza, attacchi chi le appartiene.
Questo patto (no alla criminalizzazione, no anche alla rivendicazione) è molto simile a quello che, secondo Alberto Cavaglion, fu stipulato tra i vertici dell’ebraismo ortodosso italiano e la base: nessuno va a controllare quello che fate in casa (se mangiate kasher, se osservate il sabato, se avete rapporti sessuali solo nei giorni leciti), purché non pretendiate di creare comunità ebraiche alternative.
È un modo molto italiano di gestire il dissenso – non punire le contravvenzioni ad una norma purché non la mettano in discussione, cosa che risparmia al contravventore la responsabilità di immaginare e perseguire un ordinamento sociale alternativo; ma una norma sempre violata non può reggere a lungo.
Ed infatti le comunità ebraiche italiane stanno diventando sempre più rigide, ed esigenti soprattutto con chi è ebreo per conversione, o vuol diventarlo – per chi è ebreo per discendenza vale il detto talmudico: “Israele ha peccato, ma è pur sempre Israele” (bSanhedrin 44a).
Quello che Bassi propone è invece aprire le comunità alla pluralità di esperienze degli ebrei italiani e di tutto il mondo, secondo una metodica postmoderna e postcoloniale di cui l’ultimo saggio del libro, “L’arte di essere ebrei. Esperimenti del tardo cinquantottesimo secolo” dà un esempio pratico tratto da uno Yom Kippur celebrato ad Oakland, California, nel 5763/2002, nella medesima sinagoga a cui è affiliata Judith Butler.
Gli studi postcoloniali si sono produttivamente ibridati con gli studi di genere e le teorie queer; Shaul Bassi lo spiega molto bene nel saggio “New Jewish Cultural Studies”, in cui si citano degli studiosi come la citata Judith Butler, Eve Kosofsky Sedgwick, David Biale, ed i fratelli Daniel e Jonathan Boyarin – peccato che nel resto del libro Shaul Bassi si limiti a qualche allusione alla necessità di impegnarsi contro l’omofobia (nel mondo ebraico – non che il resto del mondo ne sia esente, anzi!).
Un saggio intrigante è “Morusalemme e Palinstina”, che spiega molto bene come nella letteratura indiana postunitaria siano numerosissi i riferimenti alla condizione ebraica – non solo perché gli ebrei sono presenti in India da tempi antichissimi, ma anche perché esiste un autore, Aamir Mufti, che ritiene che i colonizzatori inglesi abbiano applicato al subcontinente indiano ed ai suoi abitanti mussulmani (nonché alla Palestina mandataria) le medesime categorie sviluppate in Europa per affrontare nel medesimo periodo la questione ebraica – il lettore ha tutti i motivi per rabbrividire. E non mancano gli scrittori indiani, specialmente tra gli emigrati negli USA, che ritengono di poter creare una diaspora indiana “imitando servilmente” quella ebraica.
A questo saggio, molto interessante, propongo un’aggiunta – non giustificata forse nel contesto originario, ma estremamente utile in questo libro: aggiungere il libro “Lo scontro dentro le civiltà” di Martha Craven Nussbaum al canone degli studi postcoloniali.
L’autrice ha dedicato il libro alle elezioni pan indiane per il rinnovo del Lok Sabha [Camera Bassa] del 2009, in cui si temeva la vittoria dell’ultranazionalista ed islamofobo Bharatiya Janatha Party; sebbene la Nussbaum non sia una studiosa postcoloniale od una teorica queer (ha anzi dedicato una memorabile stroncatura al libro di Judith Butler “Parole che provocano”), alcuni brani del libro sono degni di nota.
Per esempio, quando osserva che il succitato partito BJP si ispira all’ideologia fascista, sembra di leggere Daniel Boyarin che riferisce nel suo libro “Unheroic Conduct : The Rise of Heterosexuality and the Invention of the Jewish Man” feroci dettagli della vita di Theodor Zeev Herzl, icasticamente riassunti dal fatto che la sua opera preferita era il “Tannhäuser” di Richard Wagner, e non solo per il valore della musica.
E quando sostiene che il BJP, per creare un modello da imitare per i giovani militanti, ha sovvertito la rappresentazione del dio Ganeś, trasformandolo da panciuto contenitore di infiniti universi in un essere ipervirile palestrato ed itifallico (da come lo descrive la Nussbaum, la versione del BJP sembra paradossalmente uscita da una pubblicazione gay!), sembra di assistere al confronto di Boyarin tra un’haggadah pasquale ungherese del 1938, in cui il “figlio saggio” era uno “Yeshivah Bokhur = Studente di scuola talmudica”, né magro né robusto, ma presumibilmente dotto, e l’haggadah del Palmach [forze d’assalto israeliane] del 1947, in cui il “figlio saggio” era il “Lochem haTequmah = Combattente della Resistenza”.
Infine, quando dedica un intero capitolo a Rabindranath Tagore, il poeta nazionale indiano, per confutare le mistificazioni che ne dà il BJP, facendo notare che amava le donne ed era un magnifico ballerino, uno subito pensa agli amorei [gli autori del Talmud vissuti tra il 3° ed il 6° secolo dell’era volgare] ed al modello di mascolinità che incarnavano, e che Boyarin, pur non nascondendone i difetti, rimpiange!
Il confronto tra Boyarin e Nussbaum mostra che nessun nazionalismo può essere studiato senza adottare anche una prospettiva di genere, e che questa prospettiva è complemento necessario agli studi postcoloniali – cosa già evidenziata da Bassi.
Nel farlo va tenuto presente che, anche agli occhi del non-sionista Daniel Boyarin, non sono in alcun modo confrontabili il sionismo di Theodor Zeev Herzl (Boyarin definisce Herzl un “liberale alla John Stuart Mill”, cosa che non è ai suoi occhi un complimento, ma dice che ci sono forme di sionismo assai peggiori – tra cui quelle che mettono insieme religione e nazionalismo) e l’Hindutva di cui si fa portavoce il BJP.
Sarebbe interessante anche un confronto tra la Nussbaum ed il citato Aamir Mufti, dacché la Nussbaum dà una lettura opposta dei rapporti tra i colonizzatori inglesi ed i mussulmani in India – ma sarebbe ancora più interessante leggere il libro della Nussbaum chiedendosi che cosa significa l’India per lei, dopo che Bassi ci ha parlato di che cosa significano gli ebrei per gli autori indiani.
Capitoli molto interessanti del libro sono quelli dedicati a Shakespeare (“‘The Christian will turn Hebrew’ : riconvertire Shylock e Jessica” ed “Il corpo politico dell’ebreo”), in cui si studiano in particolare “Il mercante di Venezia” ed “Otello”.
Non solo i protagonisti delle due opere (Shylock ed Otello) sono degli “outsider”, ma per un certo tempo hanno imposto agli attori che li interpretavano di modificare il proprio aspetto: continua la tradizione di tingersi di nero per interpretare Otello, ma per fortuna l’interprete di Shylock non indossa più un nasone per marcarne grottescamente l’ebraicità.
Le opere teatrali trovano il loro commento non solo nei saggi critici, ma anche nelle interpretazioni degli attori, e studiandone le rappresentazioni più significative Shaul Bassi vede sia l’evoluzione degli stereotipi antisemiti e razzistici, sia il modo in cui si è cercato di purgare “Il mercante di Venezia” dal suo antisemitismo da parte di produzioni ebraiche o filosemitiche.
Non mi dilungo sui capitoli “Nei panni di Philip Roth” ed “Ebrei, soldi e romanzo”, se non altro perché non amo la narrativa, e non sarei capace di render loro giustizia; sono stato invece un appassionato lettore della serie a fumetti “Il gatto del rabbino” di Joann Sfar”, che permette a Shaul Bassi di celebrare l’intreccio di identità ebraiche che è stato il Maghreb francese.
Ho voluto tenere per ultimo il primo dei saggi di Shaul Bassi, “Essere qualcun altro”, che vuole essere il programma del libro, e giustificare il perché gli ebrei meritano di essere il paradigma degli studi postcoloniali – attraverso la rievocazione di molti momenti dell’esistenza ebraica in cui essi si sono trovati indotti ad “essere qualcun altro”, ovvero ad incarnare il soggetto postcoloniale per eccellenza, il quale non può trovarsi bene nella sua pelle, ed aspira sempre ad “essere qualcun altro”.
Il saggio è molto frizzante ed interessante, ma mi permetto di sentirmi inquietato, per cui provo ad avanzare una spiegazione alternativa, che credo compatibile con quella di Bassi. Credo che la posizione di eccellenza degli ebrei nel rappresentare il soggetto postcoloniale sia dovuta al fatto che antica è la loro identità, altrettanto antico è lo studio della medesima da parte loro, e purtroppo molto duratura è stata la loro oppressione - altri “soggetti postcoloniali” non si sono trovati nella medesima situazione.
Per esempio, il comportamento omosessuale è universale nella storia e nella geografia umana, è stato riscontrato anche in migliaia di specie animali, ma il salto di qualità che ha portato chi lo pratica abitualmente e principalmente a considerarlo costitutivo della propria identità personale, ed a rivendicare per sé la dignità di una minoranza, si è avuto soltanto nel 19° Secolo EV, e solo nei paesi occidentali – prima di Karl-Heinrich Ulrichs e Karoly-Maria Kertbeny non esisteva nemmeno la nozione di “omosessuale”, e quindi non era possibile fondare degli “studi queer”, mentre dai tempi almeno della rocambolesca fuga di Yochanan Ben Zakkai dalla Gerusalemme assediata da Vespasiano esistevano gli studi rabbinici.
Quindi, gli omosessuali e le altre minoranze, quando hanno realizzato la loro soggettività, non hanno potuto fare a meno di imparare da chi aveva già fatto molta più strada di loro – lo fece anche Giuseppe Verdi, che nel “Nabucco” si ispirò alla cattività babilonese per rappresentare l’attualità italiana.
Questa spiegazione mi pare schivi l’essenzialismo meglio di quella di Bassi, autore di un libro molto utile per chiunque viva in una condizione di minoranza.
Raffaele Ladu
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